
di Nino Grasso
Facendo ricorso ad una immagine ad effetto e di grande impatto emotivo, qual è quella del «fuggiasco» costretto ad abbandonare la propria terra per intraprendere uno dei tanti viaggi della speranza, il procuratore della Corte dei Conti di Basilicata, Vittorio Raeli, si è fatto portavoce del dramma vissuto ogni anno da migliaia di ammalati lucani costretti a trasferirsi fuori regione per farsi curare.
Spesso anche per patologie non catalogate tra quelle salvavita.
Lo diciamo con un pizzico di invidia, prima ancora che con la dovuta ammirazione per il piglio lessicale, molto più crudo di quello giornalistico cui siamo soliti far ricorso, mostrato dal capo della magistratura requirente contabile di viale del Basento, a Potenza, in occasione del giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Basilicata per l’esercizio 2022.
A nostra memoria, mai nessuno, prima del dott. Raeli, era riuscito a rendere plasticamente visibile, utilizzando l’immagine del «fuggiasco», la sonora sconfitta subita dalla classe dirigente lucana nell’adempimento del proprio mandato in uno dei settori-chiave della vita collettiva, partendo – come fatto in questa circostanza – dalla «freddezza dei dati contabili». Oltre 63 milioni di euro sborsati in favore di altre regioni lo scorso anno a causa dell’emigrazione sanitaria. Undici milioni in più rispetto al 2021, quando già allora il saldo negativo di 52 milioni di euro non era mai stato raggiunto negli esercizi precedenti. Roba da far tremare le vene ai polsi. Non solo.
Ma aver ridotto migliaia di uomini e donne, giovani, anziani e bambini al ruolo di «fuggiaschi della sanità», è qualcosa che va anche al di là della cruda realtà dei numeri.
Tocca la carne viva delle persone. E contribuisce ad aumentare le «disparità sociali». Sia perché – per dirla con Raeli – «chi deve spostarsi ha una condizione più penosa dei cittadini che possono beneficiare degli ospedali della propria regione». Sia perché ci sono lucani che «non possono affrontare i costi dei trasferimenti, per le spese legate a trasporto, vitto ed alloggio». E dunque? Il procuratore della Corte dei Conti è stato chiaro. Per certi versi addirittura inflessibile. L’emigrazione sanitaria non è solo il frutto di scelte mancate. O di conclamate incapacità gestionali. Ma è figlia soprattutto di responsabilità politiche ed amministrative di cui chiedere conto ai gestori della cosa pubblica, addebitando loro l’eventuale «danno erariale» provocato dalla mancata verifica degli «obiettivi di mandato» assegnati ai singoli manager della sanità lucana.
Il punto è tutto qui.
La giunta Bardi, con la Dgr n. 395 del 2019, ha inserito la mobilità sanitaria tra gli «obiettivi di mandato» da perseguire, a pena di decadenza dei direttori generali delle aziende del servizio sanitario regionale. Peccato che a dispetto delle buone intenzioni «alle parole non siano seguiti i fatti». E ciò – ha evidenziato nella sua relazione il procuratore capo della Corte dei Conti di Basilicata – «presenta possibili risvolti di responsabilità per danno all’erario».

Tradotto in soldoni, il dott. Vittorio Raeli (tra le righe) ha mandato a dire: caro presidente Bardi, egregi assessori Fanelli, Sileo, Galella, Latronico e Casino, preparatevi a ricevere un «invito a dedurre» per rendere conto della delibera di giunta n. 850, approvata lo scorso 7 dicembre 2023. Delibera con la quale, violando le norme vigenti, ed in particolare quanto previsto dal decreto legislativo n. 171/2016, è stato prorogato di due anni, sino al 2025, l’incarico dell’attuale direttore generale dell’Azienda ospedaliera “San Carlo” di Potenza, Giuseppe Spera, pur in assenza della necessaria verifica degli obiettivi raggiunti dopo i primi 24 mesi di mandato.
Diciamolo meglio: a partire dallo scorso 17 dicembre 2022 (a due anni esatti cioè dalla nomina di Spera, avvenuta con decreto presidenziale del 2020) la giunta Bardi avrebbe dovuto «valutare» l’operato del direttore del “San Carlo”, accertando il raggiungimento, o meno, degli obiettivi assegnatigli.
Tra cui proprio la riduzione della mobilità passiva.
Così da far scaturire – in caso di esito negativo – un doveroso «provvedimento di decadenza». Cosa che non è stata fatta. Perché la commissione di valutazione insediata a settembre del 2022 non è riuscita, stranamente, a portare a termine l’incarico affidatole. Tanto da dover essere sostituita, dopo oltre un anno, il 30 novembre 2023, da un nuovo organismo certificatore: l’Istituto superiore Sant’Anna di Pisa. La qual cosa ha indotto il dott. Raeli a bacchettare un discutibile «modus operandi», dietro il quale «è facile intravedere il tentativo nemmeno malcelato di procrastinare la valutazione dei direttori generali». Circostanza, quest’ultima, che – ha tenuto a ribadire il magistrato contabile – «potrebbe far emergere ipotesi di danno all’erario».

Forse val la pena ripetere, a questo punto, quanto già scritto su questo giornale nelle scorse settimane.
E cioè che Spera si è guadagnato sul campo la benevolenza della giunta Bardi, con una serie di deliberazioni a propria firma che rientrano nell’alveo di una discrezionalità sospetta.
E in ogni caso poco coerente con le reali sfide da vincere. Per esempio, non s’è capito perché utilizzando la norma varata dal governo nazionale per affrontare l’emergenza covid, che scadrà tra due giorni, il 31 dicembre 2023, il direttore generale del “San Carlo” abbia sottoscritto, lo scorso 18 novembre, un contratto di collaborazione della durata di poco più di un mese con un chirurgo pugliese ultrasettantenne, già in pensione: il dott. Luigi Giovanni Lupo. Un chirurgo. Nemmeno venuto ad operare sul campo. Ma chiamato semplicemente ad «insegnare», o peggio ancora – come taluni ci hanno riferito – a «pontificare» con i colleghi del “San Carlo”, al costo di 300-600 euro al giorno, a seconda della durata della sua presenza in reparto. Minimo sei, massimo dodici ore a turno.
Una domanda che molti si sono posti all’interno dell’ospedale, può essere così formulata: che c’entra un chirurgo in pensione con l’emergenza Covid? Non sarebbe stato meglio rafforzare, con l’aiuto di medici in quiescenza, reparti come la pneumologia o la medicina generale? Ma soprattutto: qual è il senso di una convenzione della durata di 30 o 40 giorni? Tanto più, ripetiamo, che l’interessato – a quanto ci è stato riferito – si sarebbe limitato a spiegare come si utilizza il bisturi, senza mai rimboccarsi le maniche intorno ad un tavolo operatorio?
Il dott. Spera, ne siamo certi, troverà il tempo e il modo per rispondere a questi interrogativi raccolti da chi scrive nelle corsie del “San Carlo”. Anche perché non è escluso che queste stesse domande, prima o poi, gliele faccia qualcun altro. Se mai con un piglio lessicale molto più forte del nostro. Esattamente come quello mostrato nella sua ultima relazione dal procuratore capo della Corte dei Conti della Basilicata.
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