Il punto di vista di Nino Grasso – Quel presidente di centrodestra “nominato” da Roma per fare gli interessi del Nord

Il punto di vista di Nino Grasso
Il presidente del centrodestra lucano, Vito Bardi, insieme ad Antonio Tajani, che vorrebbe una sua ricandidatura
Il presidente del centrodestra lucano, Vito Bardi, insieme ad Antonio Tajani, che vorrebbe una sua ricandidatura

di Nino Grasso

Il preavviso di sfratto che Giorgia Meloni, per mano del vice ministro agli Esteri, Edmondo Cirielli, ha fatto recapitare nei giorni scorsi al generale Vito Bardi, prendendo le mosse dalla mancata «umiltà» mostrata in questi anni dal governatore lucano nei confronti di Fratelli d’Italia, la dice lunga sul clima avvelenato che si respira nel centrodestra alla vigilia delle elezioni regionali.

Ma soprattutto quel preavviso di sfratto apre le porte ad una riflessione quanto mai doverosa, finora tenuta sullo sfondo del dibattito politico, sul ruolo e sulla reale autonomia di un presidente di Regione di centrodestra apparentemente eletto dal popolo. Ma di fatto “nominato” dall’alto, previo regolare braccio di ferro a beneficio delle rispettive claque di partito, dai leader nazionali di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. I quali, senza nemmeno salvare le apparenze, ed in barba a qualunque principio di auto-determinazione delle classi dirigenti locali, si accingono ancora una volta ad avocare a sé ogni potere decisionale che riguardi la Basilicata.

Si tratta di una «incoronazione» vera e propria.

Tanto più intollerabile se fatta (come in questo caso) in presenza di un sistema elettorale che dovrebbe privilegiare il legame col territorio del candidato presidente. E per quanto si dica che questo sia l’unico modo per non minare l’unità della coalizione, appare evidente invece che si tratta solamente di un espediente tecnico – cinicamente utilizzato per ingannare gli elettori – per non disperdere voti a vantaggio degli avversari e mostrare una compattezza che è solo di facciata.

Una riprova? Basterebbe confrontare la foto della coalizione di centrodestra scattata all’indomani del voto del 2019 con la stessa immagine ripresa da uno degli ultimi consigli regionali. I personaggi sono gli stessi. Ad eccezione di un paio di new entry, per intervenute dimissioni dei titolari. Ma la collocazione dei singoli eletti tra i banchi della maggioranza è cambiata, a riprova di un’aspra competizione interna al centrodestra, che ha fatto strame dello sbandierato patto di alleanza. In questo caso certificato a danno soprattutto la Lega. Parliamo del partito che dopo aver perso per strada tutti e sei i consiglieri regionali eletti cinque anni fa in Basilicata, diventando una piccola enclave lombarda in via di estinzione da noi, come in tutto il Sud, potrebbe paradossalmente esprimere il prossimo candidato presidente “unitario” per effetto delle aberranti logiche appena citate.

Frutto, a loro volta, di una spartizione fatta a tavolino, sulla testa delle comunità locali.

Come è facile intuire, senza questa stretta dipendenza del governatore in carica dai vertici romani, dipendenza tradottasi in alcuni casi in un vero e proprio tradimento del mandato ricevuto dagli elettori, non avremmo probabilmente assistito alle scelte autolesionistiche in materia di «autonomia differenziata» fatte dal presidente Bardi. Il quale, quando si è trattato di obbedire agli ordini delle nomenklature di partito che lo avevano a suo tempo imposto agli elettori, non ha avuto un attimo di esitazione. Ha sacrificato gli interessi dei cittadini che lo avevano votato, sperando in un cambio di passo che non c’è stato. Se non in peggio.

Chiamato infatti ad esprimersi in Conferenza Stato-Regioni sul disegno di legge del ministro leghista Calderoli che spaccherà in due l’Italia, condannando all’irrilevanza economica e sociale le regioni del Mezzogiorno, il generale Bardi – come si sa – ha risposto: «Obbedisco». Piegandosi agli interessi delle aree forti del Paese. Senza nemmeno avvertire l’obbligo morale di coinvolgere preliminarmente il Consiglio regionale della Basilicata. Come pure sarebbe stato doveroso fare. E come inutilmente per mesi, dai banchi dell’opposizione, gli hanno chiesto di rimediare con un deliberato ex-post, nel complice silenzio del presidente dell’Assemblea, Carmine Cicala.

Altro transfuga, guarda caso, dalla Lega a Fratelli d’Italia.

Difficile dunque non tremare al pensiero di ciò che potrebbe malauguratamente accadere in futuro, quando i nodi dell’autonomia differenziata e del mancato adeguamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) arriveranno al pettine. A maggior ragione se il nuovo presidente della Regione Basilicata fosse un altro “nominato” da quegli stessi vertici di partito che della riforma Calderoli sono stati i sostenitori nelle aule del Parlamento. Sia che il prescelto si chiami Bardi, come vorrebbe Tajani di Forza Italia.

Sia, a maggior ragione, se il suo nome dovesse rispondere a quello di Pasquale Pepe: uno degli ultimi dei moicani in terra lucana delle ex affollate schiere leghiste, sostenuto a spada tratta da Salvini. Senza sottovalutare la circostanza – da dare quasi per scontata – che ad avere l’ultima parola sarà Giorgia Meloni. Così come si evince peraltro dalle dichiarazioni rese ai giornalisti potentini dal vice ministro Cirielli. Tutt’altro che diplomatico nell’annunciare che diversi fratellini d’Italia, tra i tre o quattro che si starebbero riscaldando ai bordi del campo, «farebbero il presidente meglio di lui». Parole testuali.

Platealmente offensive per Bardi.

Un giudizio poco lusinghiero che sentiamo di segnalare a quelle forze politiche di centrosinistra, come Azione, che a leggere alcune recenti dichiarazioni del segretario regionale Donato Pessolano, non disdegnerebbero una “liaison” con i settori di Forza Italia (e quindi con Bardi) rappresentati da Viceconte, Taddei e Cupparo, i quali in passato, come si sa, hanno amoreggiato a loro volta col centrosinistra. Una prospettiva che lascerebbe basiti molti. A partire dall’ex parlamentare Tonio Boccia, già presidente della Regione Basilicata dal 1990 al 1995. Il quale, dopo aver lanciato in queste ore l’ennesimo appello a ritrovarsi intorno ad una forte candidatura civica, come quella di Angelo Chiorazzo, ha volutamente ripreso le voci di un possibile avvicinamento di Marcello Pittella al centrodestra, per scrivere senza mezzi termini: «Non ci credo, nemmeno se lo vedo».

Forte della sua conoscenza di uomini e cose, Tonio Boccia deve avere fondate ragione per manifestare una tale certezza nei confronti dell’ultimo governatore di centrosinistra della Basilicata.

Del resto, sarebbe veramente arduo per Pittella, come per chiunque altro abbia occupato i banchi dell’opposizione negli ultimi cinque anni, spiegare ai propri elettori come si possa appoggiare, in Basilicata, a cuor leggero, un centrodestra che sta letteralmente soffocando il Sud. Prima con l’autonomia differenziata. Poi con la Zes unica. E infine con la mancata erogazione dei fondi di sviluppo e coesione. Circostanza quest’ultima che ha indotto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, a parlare del ministro Raffaele Fitto come di un «castigo di Dio».

Ed è quanto dire, soprattutto in una regione, come la nostra, che presenta le peggiori performance del Paese. Secondo gli ultimi dati, in termini di mobilità ferroviaria, la Basilicata è la più lenta d’Italia. Mentre al contempo è la terra che registra il maggior numero di viaggi della speranza in campo sanitario. Per dirla con un giovane insegnante di Tolve, da sempre lettore della “Nuova” che ci ha segnalato questo paradosso: «Non dico di migliorare entrambe le cose. Ma almeno una…» E sfidiamo chiunque a dargli torto.

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